Giovanni Infelíse

L’ordine discontinuo dell’indicibile (autoanalisi di “Depassé”)

A Daniela Cabrini

Il titolo, che qui ambisce – non senza qualche incertezza – unicamente alla ricerca di un assioma semplice, parte da un presupposto imprescindibile: il poeta non può non saper dire ciò che la sua poesia dice di indicibile.

Se l’indicibile, la sua conoscenza, è la ragione stessa dell’esistenza della poesia, al poeta non rimane che assolvere a una funzione che gli deriva dalla responsabilità di dirsi tale, dando un volto intelligibile, se pur paradigmatico, alla sua poesia. Non svelando, ma dis-velando ciò che egli stesso ha creato, tentando analiticamente – come nell’esempio qui addotto, inteso quale parte di un insieme armonico e concettualmente unitario – di attingere alla propria coscienza, di riattivare ragione e linguaggio attraverso quel processo conoscitivo di cui il pensiero si è servito nella scomposizione e ricomprensione di ciò che muore o si rinnova, di ciò che vive degradandosi o elevandosi. Farlo non senza la naturale apprensione di chi sa quanto proverbiale sia a volte l’ambizione umana e del poeta in particolare, anche se la ‘necessità’ non è ‘urgenza’ di apparire, ma unicamente assunzione di uno ‘stilema’i dell’‘essere’ mediante la parola (mediante la sua rilevanza lessicale e sintattica) o l’azione stessa di sé in quanto poeta in grado di ripercorrere gli istanti di un
processo il cui esito si vuole spesso contraddittoriamente incerto eppure definitivo, enigmatico, irripetibile, oscuro, ‘indicibile’. Questo perché, forse, nessuna intuizione intellettuale o sensibile consente mai di apprendere i concetti che altro non esprimono che un fatto. Proferire l’‘indicibile’ vuol dire allora spiegare quel fatto, cercare le parole appropriate attraverso un loro rigoroso concatenamento: significa riscoprire i termini di un linguaggio che si vuole perduto. Il pensiero deve poter esser detto attraverso l’intermediazione delle parole, sottoponendo ciò che si dice al giudizio di se stesso nel suo ‘farsi’, che significa: comprendere ciò che il ‘dire’ dice quando lo ‘dice’. Comunicare l’indicibile è, insomma, parte di un’azione il cui fine è la ricapitolazione di una complessità, di una fedeltà, di un ordine discontinuo a cui la materia poetica sottostà nel suo ‘farsi’,
quasi sempre, insostenibile e doloroso. La discontinuità non è l’esito di una frammentazione della conoscenza, della memoria che se ne ha o la cagione di un difetto – diciamo cosí – di adesione organica del pensiero al suo oggetto scaturito in un tempo diverso da quello in cui viene riconsiderato, ma dal rilievo che l’ambivalenza, insita in ogni esperienza umana, assume di fronte al cambiamento improvviso dell’orizzonte semantico a cui attinge, istante dopo istante, l’interrogazione. La stessa da cui ha origine quella discontinuità che è tale solo in apparenza giacché ogni ‘senso’ ha la sua dimora temporale che non muta, ma passa lasciando una traccia a cui fa seguito una pausa, un’interruzione che il pensiero non è piú in grado di ripercorrere se non contravvenendo a un principio di irripetibilità. Ma anche di identità di una esperienza e del suo senso ultimo non piú recuperabile in un presente che ne dispieghi il contenuto primo quale fondazione stessa dell’essere, disperdendo la sua accezione profonda in un’apparente invisibilità che è unicamente il frutto di un’estraneità dettata al poeta dalla meraviglia, pari solo all’angoscia che immobilizza e che si traduce, spesso, nell’impossibilità di riconoscersi quale unico artefice delle sue stesse parole.

*

La mia raccolta Dépassé (2011 / cfr. in “Letterale” di questo numero di “Testuale” la missiva critica di Gio Ferri) si compone di otto poesie di cui la prima (Del tempo d’ogni forma) costituisce una sorta di ‘pròtasi’ ai versi successivi; mentre una dichiarazione di poetica – alla cui lettura si rinvia – in forma di lettera (Lettera agli “eterni”) compendia i temi, il risvolto imprevedibile della ‘parola’, le idee, il ruolo di un linguaggio che fa sua la riflessione con l’unico desiderio di dire la vita in ogni sua forma senza imporre a essa un destino.

Il tutto avendo ben presente la tradizione letteraria e filosofica che accompagna la ricerca poetica, la formulazione di una domanda condivisibile, in altre parole, la riflessione intesa quale atto conoscitivo mediante il quale lo spirito, ritornando su se stesso, prende coscienza del suo agire e del suo carattere.

La poesia in questione ha per titolo L’alchimia del disordine. La sua lettura e a seguire un suo commento – per meglio indicare gli elementi concettuali inerenti la composizione nella sua interezza –, costituiscono insieme un primo passaggio attraverso cui giungere a una rapida analisi testuale in senso stretto di quegli aspetti che ne sanciscono la cifra stilistica.


L’ALCHIMIA DEL DISORDINE

L’insidia del tratto arido e finito,
filiforme reliquiario di avanzi,
curvo s’adorna e ripete
la nomenclatura del tempo
senza il ristoro di mète remote.
5
Ma dal tagliente fuoco
e dal burbero sguardo
scivolando sotto le ombre
di lingue sacre e scintillanti,
sospirando sopra amorosi flagelli
10
di occhi e labbra,
posa un’antica agonia
che piegherebbe
del piú longinquo angolo
il vertice.
15
Ora siediti e parla,
siedi vicino e parla
del passaggio, della perplessità
cui fu preso appena l’amore,
quel laconico addio
20
che in un dono s’accese
e un sorriso stese al sole,
sulle mani di chi sterra l’inferno,
la sregolatezza,
che confessa ogni maledizione
25

e conforta ogni cosa
avvolgendo parola e sogno,
le avarizie del cuore,
la materia del disordine.
Nessuno ha piú coraggio

30

poiché prossimo è ciò che affligge
piú della distanza, piú del nome,
del diniego che resiste all’assenza;
non una parola spoglia
una rosa né il silenzio le lusinghe,
35
Umano può dirsi il disprezzo,
umanamente disumano,
perduto nel suo lato migliore,
paura e una reticente indolenza dall’altro …
Di canti la trama si tinge
40
e brucia ogni pietrosa coscienza
che dalla sua finestra
apre alla notte in rovina,
alla solitudine del silenzio.
Urla l’angoscia e dire si potrebbe,
45
a un tempo fidato, l’orrore
che brucia ogni virtú,
ogni bontà, forma o costrutto.
Se la luce brucia – tra minacce oscure –
50
non voltarti, non voltarti ancora:
ogni lume sul mare
conosce l’inizio e la fine
del fiume che ti riporta e ti estingue
nel labirinto della speranza.
55

COMMENTO

Un male segreto, che fa qui da contrappunto con effetti allusivi e suggestivi al labirinto della speranza (v. 59), ha sempre il volto di una verità negata, di una disubbidienza che si affranca da ogni ragionevole spiegazione, che rifiuta di confondere con la moltitudine delle idee e del buon senso l’amore, il solo che non accetta leggi e proclami, ma che unicamente aspira alla chiarezza non solo delle parole, bensí dei gesti, di ciò che essi esprimono anche a costo di negare alla ragione, a tutto ciò che essa ci ingiunge, uno spazio che non le appartiene se non in minima parte. Tutto si genera per amore fino a condurre la vita al culmine di una caotica assenza: a ognuno la sua, la piú vitale, la meno compresa, la piú dolorosa. Cosí l’alchimia indaga, tenta la spiegazione di un segreto che ogni vita in sé custodisce. Nessuna stranezza, nessun inganno volto a trasformare la realtà – perché se l’amore consiste nel non rifuggire le passioni, è anche vero che da esse è ridotto a un fatto che nega la realtà stessa di chi si ama –, ma unicamente comprendere ciò che continuamente
ci riporta all’origine di un canto per noi inspiegabile e tormentoso. L’amore deve poter denudare le cose, denunciarne l’apparente inutilità e giungere cosí, giorno dopo giorno, a ciò che dette cose sono realmente per la vita non dei sensi, o non solo, ma per quella che aspira a riuscire dove ha mancato. L’amore, la sua necessità, è nella sua stessa essenza che fa dell’assenza ciò che non gli è dato comprendere se non attraverso un insopportabile e doloroso bisogno di pace. È forse solo nell’affinamento dell’essere che l’amore trova l’unica vera speranza concessa alla sua solitudine, l’unica dimora possibile, quella del perdono.

Cosí, ciò che si è detto è ciò che non avremmo voluto udire mai, ciò che si è fatto quasi mai è ciò che avremmo voluto per noi stessi. Nessuna consolazione, nessun rimpianto sapendo che: non esiste motivo per il quale non si possa amare ancora, se si ama. Ma ciò nonostante c’è un ‘amore’ che fa della sua ‘insensibilità’ una forza inesplicabile che noi stessi gli rimproveriamo senza, per questo, riuscire a scalfire la sua sordità, la sua cecità. Continuiamo ad amare e nondimeno a rendere sempre piú impenetrabile il nostro sentimento, la sua contraddizione, la sua inappellabilità, la sua lacerazione. Forse giunto al suo estremo limite l’amore è espressione di un dolore che rivela il suo vero volto piú simile al male che alla compassione, piú simile all’ingiustizia che al perdono. È il volto tragico di un amore senza via d’uscita, un amore che vede nella sua assurdità la ragione stessa della sua infelicità, della sua insostenibile volontà d’amare che sfida però, inspiegabilmente, il conforto di un sentimento che pure vorrebbe intimamente corrispondere piú che confinare nel silenzio obliandolo.

Qui, più che altrove, si è inteso dare voce all’ombra – a cui si affida la pesantezza del corpo dei pensieri e non già l’armonia delle cose – piú che provare a rispondere alla domanda cruciale circa la natura e il fine di ogni azione. Si è propensi, nondimeno, a credere a un tempo fidato (v. 51) in cui ciò che ci è oggi incomprensibilmente negato sia pronto domani a svelarsi e a donarsi per ciò che è: inizio.

ANALISI TESTUALE

a) L’alchimia del disordine: il titolo prefigura la pluralità dei versanti tematici a cui la poesia accenna e che ruotano attorno a un susseguirsi di stati d’animo di volta in volta posti in evidenza, all’interno della omposizione medesima, attraverso la scelta di una maggiore rilevanza semantica delle parole di cui si serve, di una loro forte connotazione allegorica che rimanda a una significatività piú profonda e al tempo stesso piú autentica di un disordine tutt’altro che tale. Il termine alchimia, piú che asserire o accennare a una pretesa ‘conversione delle cose’, esprime molto semplicemente un desiderio insopprimibile di conoscenza, di chiarezza, anche di verità, di ricerca dei termini di

        un’antica agonia (v. 12)
        che piegherebbe (v. 13)
        del piú longinquo angolo (v. 14)
        il vertice. (v. 15)
O del dolore che esalta
        la sregolatezza,
(v. 24)
che non comprende
        le avarizie del cuore,
(v. 28)
che cerca le sue ragioni tra
        la materia del disordine
esistenziale.
(v. 29)

 

b) Dal punto di vista metrico, si tratta di una poesia libera di otto strofe irregolari configurate liberamente secondo il ritmo del pensiero per complessivi cinquantanove versi di lunghezza variabile. Lo spazio bianco tra una strofa e l’altra costituisce una pausa nella dizione. Non solo nel componimento di cui si parla – qui scelto, è bene ricordarlo, a modello esemplificativo di un’analisi estendibile all’intera raccolta – si nota un anisostrofismo di grado forte unito a una polimetria dei versi costante, ma anche in ognuna delle poesie contenute nel volume sono rintracciabili questi stessi aspetti metrici, la cui unica eccezione è rappresentata dai
componimenti posti rispettivamente in apertura (Del tempo d’ogni forma) e in chiusura (L’alfabeto sepoltoii) dell’opera che, almeno per ciò che concerne la ripartizione in strofe, rappresentano un caso a sé essendone completamente privi. Le pause, che nel primo sono dettate unicamente dalla punteggiatura, nel secondo dei testi ora citati sono legate alla lettura e scandite da una complessa articolazione dello spazio che precede l’attacco di ogni verso a esso corrispondente. Qui gli spazi bianchi sono quelli che Ungaretti definiva “isole di silenzio” e dunque pause volte non solo a conferire al testo una maggiore e piú efficace comprensione dell’andamento dei versi nel loro insieme, ma anche quello di consentirne una piú incisiva esecuzione nella pronuncia.

Per quanto concerne la sintassi, ne L’alchimia del disordine sono da notare le inversioni sintattiche che costituiscono una variante ritmica (ad esempio: ogni cosa /avvolgendo ai vv. 26-27, spoglia/una rosa ai vv. 34-35) all’andamento generale del componimento.

Nell’insieme, la strutturazione dei versi è affidata all’allitterazione, all’affinità di gruppi di elementi fonetici la cui sonorità, imprevedibilmente asimmetrica, agisce sulle distanze tra essi amplificandole o riducendole in vista di un effetto armonico appena percepibile, ma che imprime al componimento un’aura di profondo e diffuso mistero, di smarrimento, di inquietudine.

Il lessico mette in evidenza da un lato una realtà dolorosa: gli amorosi flagelli (v. 10); dall’altro la possibilità del poter ‘dire ancora’, che si traduce in un atto di fiducia nella ‘parola’ chiarificatrice: … e dire si potrebbe,/a un tempo fidato, l’orrore/che brucia ogni virtù,/ogni bontà, forma o costrutto (vv. 50-54).

c) [vv. 1-5] Per ciò che concerne la struttura, la poesia si apre con un verso connotato dal sostantivo tratto che dal punto di vista figurativo prospetta – quasi ad anticiparne una rappresentazione sommaria, essenziale (i termini arido e finito che seguono ne rafforzano in tal senso rispettivamente la durezza e la compiutezza del gesto) – il ruolo del soggetto posto in primo piano nel v. 3 (curvo s’adorna e ripete) la cui funzione, in quella posizione, altro compito non sembra avere che di introdurre, nella dinamica del testo, un suggeritore ‘anonimo’ (l’altro sé?). Ciò è reso piú evidente nel verso successivo, la nomenclatura del tempo (v. 4), cioè nella posizione di rilievo attribuita al tempo elevato a parola chiave che, in quanto azione, ha nello scandire e sistemare, nel raccogliere e decifrare gli istanti di ogni esistenza, il suo compito ultimo.

L’altro sostantivo (insidia), posto all’inizio del v. 1 con funzione di incipit rafforzativo, denota fin da subito l’apprestamento offensivo dell’impianto poetico volto alla ricerca di un senso riposto non facilmente identificabile, ma che allude con evidenza a un pericolo nascosto, a una condizione di sofferenza che assumerà una sua piú estesa significazione ed evidenza nei versi successivi.

[vv. 6-15] Un male persistente, un’antica agonia (v. 12), è dunque la cifra che connota l’intero componimento e nello specifico i vv. 6-15 della seconda strofa dove dal burbero sguardo (v. 7) minaccioso e dall’ombra di un’immagine irriducibile e nondimeno storicizzata, affiora la parola taciuta, ma unica nella sua valenza chiarificatrice, che anela insistentemente e disperatamente a essere pronunciata liberamente posandosi, quasi in un sospiro, sopra quei tormenti dell’animo che non hanno fine proprio perché riportano continuamente all’origine.

L’uso, si potrebbe dire allora metonimico sommato solo marginalmente a quello anaforico, di sostantivi – sebbene differenti, ma in stretta relazione fra loro (fuoco, sguardo, ombre, flagelli, labbra, agonia) –, pone a confronto una serie semanticamente eterogenea di termini che si completano e uniformano vicendevolmente in vista di un unico tema determinato dal tempo e persistente nella sua intensità: il sentimento, che sovrasta oltre ogni correttezza formale il limite imposto dal buonsenso e dalla ragione, ponendosi al di là di una realtà concettuale e formale che imporrebbe una loro piú corretta applicazione. La ‘ripetizione’ (l’anafora) cercata per ‘significati diversi’ di parole in relazione tra loro, va riferita non tanto all’utilizzo esatto della ‘figura retorica’ (da intendersi come ripetizione di una o piú parole all’inizio di un verso o di una strofa), che è qui solo una figura di riferimento a cui i termini su indicati sono stati arbitrariamente associati per rendere visibile una similarità e una contiguità, quanto alle singole valenze semantiche che detti termini esprimono soprattutto per via analogica e che si dànno come ‘ripetizione’, come differenze che, malgrado ciò, si pervadono l’un l’altra in funzione di una resa significativamente rilevante dell’unico concetto che li ha generati: il dolore, frutto dell’incomprensione e della solitudine di un sentimento inespresso e perciò insopprimibile.

[vv. 16-29] L’esortazione dei vv. 16-17 della terza strofa, ora siediti e parla,/siedi vicino
e parla
, denota chiaramente l’incontrollabile impulso a cercare la verità là dove la parola si fa piú
reticente o addirittura incomprensibile, a tratti non meno rarefatta del silenzio inappellabile di un
rifiuto tout court che non accetta il confronto.

L’empasse preconizza, in una offerta disinteressata – secondo uno schema allegorico destinato
a rivelarsi nel futuro – , quel laconico addio (v. 20) a cui non è possibile sottrarsi e che costituirà la
ragione stessa dello scacco di un sentimento che confessa ogni maledizione, che conforta ogni
cosa/avvolgendo parola e sogno,/le avarizie del cuore,/la materia del disordine
(vv.25-29), la propria intemperanza e devozione.

[vv. 30-38] Nessuno ha piú coraggio (v. 30). Il verso precorre il “j’accuse” della quarta strofa di fronte alla prospettiva della solitudine, per cui tutto ciò che affligge nell’abbandono resta sommerso tra ciò che lambisce i margini della vita (come l’acqua di un fiume che non ha ritorno) e ciò che ne disegna l’armonia profonda (la musica scritta sullo ‘spartito’ della passione e del sentimento) a un passo dalla morte che non è dato espugnare (la vita che assedia la morte v. 38).

In tal senso la vita è ridotta a ciò che non avrà un seguito dopo le parole, un futuro dopo il silenzio di chi non ha compreso la ‘domanda’ d’amore, ma solo esaltato l’illusoria consapevolezza di essere al corrente unicamente di ciò che non ha avuto mai luogo. Resterà il dilemma di un’espressione attonita, di un volto muto, il volto di chi sopravvive al dramma: il solo volto che possiede l’anima sconfitta, è il volto della crudeltà e della necessità.

[vv. 39-44] Cosí umano può dirsi il disprezzo,/umanamente disumano (vv. 39-40, quinta strofa), uno stasimo allitterativo che condensa in sé ‘smarrimento’ e ‘indifferenza’ quasi fossero, queste, prerogative inesprimibili di una lingua incontaminata e crudele, quasi che la disumanizzazione fosse la naturale conseguenza di una sofferenza protrattasi nel tempo cosí come pure la paura e una reticente indolenza (v. 42) che dissimulano l’agone, tra stati d’animo opposti, nell’apparente indulgenza di un silenzio che tale non è perché su di esso incombe un vento tormentoso, il clangore di una disputa tra ragione e sentimento, tra odio e amore.

[vv. 45-49] Giunti cosí alla sesta strofa, di canti la trama si tinge (v. 45) e sono canti di ineffabile disperazione a cui non è dato sottrarsi, al punto che brucia ogni pietrosa coscienza (v. 46) dinanzi alle rovine di un buio presagio dell’anima che si tratti di un errore piú che di una maldicenza covata in solitudine, che sia la parola taciuta alla notte l’unica in grado di chiarire le ragioni di un distacco, di svelare la prigione di un’illusione e di una morte prima ancora che del corpo, dello spirito.

[vv. 50-53] … E dire si potrebbe,/a un tempo fidato, l’orrore/che brucia ogni virtú,/ogni bontà, forma o costrutto (vv. 50-53, settima strofa). Non v’è ragione alcuna per cui il tempo non debba essere ciò che è per ognuno: conoscenza di sé, limite, ripetizione, ma anche approssimazione a un senso di giustizia e di fedeltà, oltre ogni apparenza, all’autenticità di un’origine in cui – sappiamo – è riposta ogni speranza e ogni nuovo
ragionevole inizio.

[vv. 54-59] L’inizio è il segno di un’azione indicibile in attesa di un resoconto che non tarderà ad arrivare; ma esso è anche la luce sotto la quale ha origine ogni vita, la sua stessa possibilità, la sua differenza, la sua unicità. Ma Se la luce brucia – tra minacce oscure –/non voltarti, non voltarti ancora:/ogni lume sul mare/conosce l’inizio e la fine/del fiume che ti riporta e ti estingue/nel labirinto della speranza (vv. 54-59, ottava strofa), nel brusio di parole che non è dato espungere da un mal riposto amore che colui che parla vorrebbe non aver mai pronunciate.

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Note

i Uno ‘stilema’ in cui, tuttavia, non sempre la ‘frequenza’ illumina gli elementi piú significativi di un testo, dal momento che un messaggio è tanto meno informativo quanto piú è prevedibile.torna su

ii Si riporta qui di seguito una breve riflessione (inedita) dell’autore sul testo in questione. Lo scopo è unicamente quello di fornire al lettore ulteriori elementi che risultino di qualche utilità alla lettura.

                “Si scrive perché il silenzio accolga la voce di chi grida tra le macerie umane la propria disperazione, le proprie ragioni, il proprio dissenso.
                Un tempo si raccontava la vita a sera perché i ‘briganti’ rimanessero ombre senza speranza e il sonno non diventasse di pietra e i sogni caos e il risveglio l’angoscia del giorno.
Nei sogni, sappiamo, non si torna mai indietro pena il perire del tempo, il patire nel tempo che ci resta.
Si scrive per morire ogni volta per amore e non passa–tempo senza che di esso se ne ricordi quel che la memoria conserva nel ritmato frasario degli anni: gioia, crudeltà, temperie.
                Si seppellisce cosí l’alfabeto di ogni vita, di ogni vita ritenuta superflua, di ogni pensiero espunto dal sentimento quando la parola è ridotta a semplice comunicazione, prolusione a un senso che non ha futuro, quando si riduce il linguaggio che l’accoglie a un fatuo braciere di senso inadatto alla comprensione della vita di chi si ascolta.
Superflua è erroneamente considerata quella vita che fa della coscienza la chiave d’accesso al senso perduto nell’inutilità di un’esistenza assediata dalla vanagloria e dalla sordità, vita che dissotterra il corpo, la forza, il significato piú profondo di ogni parola proferita accordando pensiero e suono, comunicazione e comprensione.
                Cos’altro è allora la morte per incomprensione? È l’atto estremo di una vita che si ritrae in silenzio nell’unica dimora che conosce: la poesia di un alfabeto sepolto, di una vita, di una qualunque vita inconciliabile col sogno che non può essere dimenticato.
                La via di uscita per la mente da un perenne stato di conflittualità tra l’urlo della vita e il sussurro della morte, è forse la conoscenza – che il destino vuole sia per noi solo desiderio, speranza, attesa, illuminazione, inganno – di quel carattere ascoso di realtà irreale proprio della parola amorevolmente detta, tradita tuttavia dall’incomunicabilità, sopraffatta dalla vanità di essere sopra ogni cosa un suono privo di un’autentica armonia, di una precisa riconoscibilità al di là del gioco illusorio del dire e del dover apparire che le fa dimenticare cosí l’unica via possibile: quella dell’essere sempre e comunque ciò che è: fautrice di ragione e sentimento”.torna su